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LucyVissuto tra 4 e 2,5 milioni di anni fa, prima in un ambiente forestale poi adattatosi alla prateria e alla savana in seguito a cambiamenti climatici, l’Australopiteco viene suddiviso in 5 specie: anamensis, afarensis, africanus, gahri, barheghazali.
E’ un ominide di corporatura gracile: l’altezza media è intorno a 1,30 m. e il peso si aggira sui 30-40 kg. L’alimentazione è onnivora,costituita sia da vegetali sia da carne di animali uccisi o trovati già morti nell’ambiente forestale in cui viveva.

L’esemplare più famoso di Australopithecus afarensis è una femmina ritrovata in Etiopia nei primi anni Settanta, meglio conosciuta con il nome di Lucy, dal titolo di una canzone dei Beatles. Morta a circa 30 anni per cause naturali, è alta poco più di uno scimpanzé, la faccia piuttosto sporgente, arti superiori alquanto lunghi, così che può ancora arrampicarsi con grande agilità sugli alberi per sfuggire ai pericolosi carnivori della savana. Il bacino e il femore dimostrano però che già camminava su due piedi, anche se in modo imperfetto, con un leggero dondolio laterale.

In seguito ad un’altra celeberrima scoperta, a Laetoli in Tanzania, gli studiosi hanno trovato la prova indiretta di una precoce camminata di 3,6 milioni di anni fa rimasta impressa nelle ceneri vulcaniche. Antichissime orme, simili a quelle lasciate da un piede umano attuale, di tre individui di taglia diversa, forse una piccola famigliola formata da un maschio adulto, una femmina e un piccolo, testimoniano un'andatura bipede ormai pienamente controllata.

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antenatiLa Galleria degli Antenati, inserita nella parte iniziale della sala dedicata ai Primi Uomini, ripropone a grandezza naturale i principali protagonisti della straordinaria vicenda evolutiva dell’uomo: un gruppo di Ominidi, fra cui un esemplare di Homo habilis, inseriti in un ambiente di savana.

Raggruppati l’uno accanto all’altro, fanno capolino dalla vegetazione che attecchisce sulla terra arida e secca, tre Ominidi appartenenti rispettivamente al genere Australopithecus e Paranthropus.
Timoroso, un giovane Parantropo osserva lo spettatore, accosciato fra gli arbusti e pronto a darsi alla fuga. Un’alimentazione opportunista che sfrutta ampiamente tutto quanto la pur arida savana può offrire ne garantirà la sopravvivenza sino ad un milione di anni da oggi. La dentatura robustissima gli consente di cibarsi anche dei vegetali più duri e di raggiungere una taglia considerevole che, negli esemplari maschili, può toccare anche i 50-60 chilogrammi.
Dietro di lui, un altro Parantropo, dal corpo massiccio e dalla muscolatura possente, svetta sull’Australopiteco africano.

Dalla parte opposta siede un Homo habilis intento a fabbricare strumenti, con una tecnica primitiva, ma efficacissima. Colpendo ripetutamente una grossa pietra appoggiata al terreno con un’altra egli riuscirà ben presto a staccare alcune schegge affilate e taglienti, ottimali per molti usi. Rispetto ai suoi contemporanei Parantropi, il volto di Homo habilis ha già, qualcosa di umano e appare già orientato verso lo sviluppo di un aspetto assolutamente originale rispetto a tutti gli altri esseri viventi: la cultura. Ne sono il presupposto non solo il progressivo aumento di dimensioni e la complessità del cervello, ma anche una capacità di presa di precisione che si realizza tramite l’opponibilità del pollice rispetto alle altre dita.

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giornata1Per un lunghissimo periodo di tempo diluito in alcune centinaia di migliaia di anni, gruppi di cacciatori-raccoglitori appartenenti alla specie Homo heildebergensis hanno battuto quasi ininterrottamente le vallate del Pedeappennino bolognese, spesso spazzate dai freddi venti glaciali.
La ricostruzione ipotetica di una giornata qualsiasi dei nostri lontani progenitori domina la sala dedicata ai Primi Uomini che ripropone, in una grande scenografia centrale, un frammento di vita preistorica ambientata 200.000 anni fa.

Attorno ad una grossa carcassa di rinoceronte, che giace intrappolata nella fanghiglia nei pressi della riva di un fiume, due cacciatori paleolitici sono intenti a scuoiare il pachiderma con un coltello di pietra affilata. Fanno parte del loro corredo due lunghe aste appuntite di legno e alcune pietre a ritocco bifacciale pronte all’uso. Sullo sfondo un piccolo riparo provvisorio costruito con pelli, rami e frasche accoglie una donna e il figlio lattante.

La scena emblematica propone quello che, forse, accadeva nel giacimento Due Pozzi (Pizzocalvo): tutto ciò che di questa vicenda oggi rimane sono solo le affilate lame di pietra per tagliare la carne ottenute da una dura roccia locale, ftanite, alcuni ciottoli portati sul posto ma non utilizzati e qualche piccolissimo frammento di carbone. Il resto - legno, osso, pelli, fibre vegetali – non hanno resistito al tempo e agli agenti atmosferici e chimici.

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Con l’uomo di Neandertal compaiono, per la prima volanimacorpota in Europa, manifestazioni legate al culto dei morti, che segnano una tappa fondamentale nello sviluppo della coscienza umana.
Queste forme rituali appaiono cariche di significato, benché sfuggano alla nostra indagine le concezioni filosofiche o religiose che sono allo loro base e i possibili riti connessi alle inumazioni stesse.

La ricostruzione allestita in museo propone una delle tante situazioni che, idealmente, possono essere state vissute da una comunità paleolitica neanderthaliana insediata nel nostro territorio, durante una delle stagioni climatiche più fredde conosciute dall’umanità.
All’interno di una grotticella gessosa nei presi di Monte Croara un anziano guaritore con colorate piume, intrise di medicamento e simbolo del benessere, ruotano ripetutamente intorno alle tenere membra di una infante gravemente ferita da un carnivoro, nel disperato tentativo di propiziare la guarigione.

Nel deposito Cave IECME (loc.Croara – S. Lazzaro di Savena) resti di fauna a bisonte, megagero associati a numerosi strumenti litici afferenti alle fasi finali del Paleolitico Medio documentano la presenza di comunità tardo-neanderthaliane datate con il C.14 a 42.000 anni da oggi.

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pianta farnetoLa Grotta del Farneto rappresenta uno dei più conosciuti e importanti insediamenti preistorici del Bolognese, anche grazie al fatto che la sua prima esplorazione venne fatta nella seconda metà dell’Ottocento.

Scoperta nel 1871 da Francesco Orsoni, che qui spese gran parte della sua tormentata avventura umana, con la sua imponente stratificazione archeologica addossata alla parete esterna, presso l’imboccatura principale, e con altri ritrovamenti nelle concamerazioni interne, la grotta mostra di essere stata frequentata per tutta l'età del Bronzo.

Nonostante la grande quantità di resti archeologici, di semi e di ossa che ci informano sui più svariati aspetti della vita quotidiana dei suoi frequentatori, l'anfratto non ha mai ospitato un abitato a carattere fisso, quanto una serie di ripari, visitati stagione dopo stagione e utilizzati come residenze temporanee da gruppi dediti alla pastorizia e alla caccia.
Alle pratiche pastorali, che potevano comportare la permanenza in loco anche per alcuni mesi, si riferiscono ad esempio i vasi forati per la lavorazione dei latticini e i frammenti di argilla cotta utilizzata per intonacare strutture divisorie per la recinzione e la stabulazione degli animali.

Il ricorso sistematico delle comunità del Bronzo a molte delle risorse naturali disponibili, quali il gesso, è testimoniato nella Grotta Serafino Calindri. Qui, infatti, manufatti in scagliola (resti di intonaci e sostegni per vasi) rivelano il precoce sfruttamento di questo nuovo "materiale", mai fino ad allora entrato a far parte dei processi produttivi, e il possesso di cognizioni sulle qualità materiche e la duttilità del gesso disidratato e polverizzato quando entra in miscelazione con l’acqua.

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orsoniFrancesco Orsoni (Bologna 1849- Firenze 1906) è figura assolutamente originale nell'ambito delle ricerche preistoriche avviate in territorio bolognese nel secondo Ottocento per la formazione da autodidatta, eppure sorretta da una grande acutezza intellettuale e da un animo esuberante e appassionato.

Spronato sin dagli anni più giovanili da interessi geologici e paletnologici, diviene allievo del Capellini – pur senza mai laurearsi – e nel 1871 individua e comincia ad esplorare la Grotta del Farneto. Dopo un'assenza dall'Italia di alcuni anni e una permanenza in Sardegna che gli consente di fare importanti ritrovamenti, nel 1879 riprende le indagini lungo le vallate appenniche e scopre la stazione preistorica di Castel de' Britti.
Nel 1881 dà inizio a nuovi scavi al Farneto, che continuerà sino al 1888, dibattendosi tra mille difficoltà esistenziali ed economiche, ed organizza per i visitatori l’accesso alla grotta, tentando anche di fornire un servizio di visite da lui stesso guidate.

Le avverse condizioni economiche lo costringono intorno al 1890 ad abbandonare per sempre il Farneto. Morirà in povertà a Firenze, in un letto d'ospedale.

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